La «follia delle tenebre»: a ottant’anni dalle leggi razziali

di Gianni Paoletti

Durante la seconda guerra mondiale dei circa 39 mila ebrei italiani 8000 furono deportati: fecero ritorno solo in 800. Le cifre del rastrellamento più noto, quello del ghetto di Roma, del 16 ottobre 1943, sono in certo modo esemplari: dei 1022 deportati solo in 17 sopravvissero. Fra essi una sola donna: Settimia Spizzichino.
Moltissimi, invece, si salvarono: grazie all’asilo assicurato da istituti religiosi cattolici, alla fuga in Svizzera, all’aiuto di concittadini non ebrei, a gesti di pietà e solidarietà umana del momento, del caso, della fortuna. Seimila avevano scelto, già fra il 1938 e il 1941, di lasciare l’Italia, prima che fosse troppo tardi. La Shoah italiana fu un evento complesso. Iniziò con una massiccia campagna di stampa antisemita già nel 1937, e assunse la forma di razzismo di Stato nel 1938. Un’operazione che, dapprima, privò gli ebrei italiani dei loro elementari diritti di cittadini, con restrizioni via via più gravi e pesanti, finché non si cominciò la persecuzione sistematica delle vite: con i primi eccidi e rastrellamenti del settembre-ottobre 1943, e poi, dopo la famigerata ordinanza di polizia n. 5 del 30 novembre 1943, con l’arresto, l’internamento e la deportazione nei Vernichtungslager.

Tanto più gli storici indagano la questione, maggiore diventa la consapevolezza almeno di tre elementi fondamentali: 1. le leggi razziali furono un’iniziativa autonoma del fascismo e non un allineamento passivo o indotto, o una concessione all’alleato nazista; 2. La Shoah italiana fu messa in atto con la collaborazione e la partecipazione attiva anche di italiani: dall’uomo comune, quello che la storiografia americana sul tema chiama ordinary man, fino al grande burocrate; 3. già dal 1942 non solo i vertici dello Stato italiano, ma anche una parte, quella più accorta e informata, per quanto minoritaria, dell’opinione pubblica italiana sapeva quanto stesse accadendo nei campi di sterminio, pianificati e allestiti dai nazisti nel corso di quell’anno. Fra le verità difficili da accettare della nostra storia, forse questa è la peggiore: scuote nel profondo quell’autorappresentazione nazionale degli “italiani brava gente”, alimentata anche da certi stereotipi coltivati all’estero, ancora vivi e operanti, di un italiano, appunto, tutto pizza e mandolino, e quindi – al netto del suo carattere giocoso e improvvisatore, come scrivevano già Hegel e Schopenhauer nell’Ottocento – innocuo, bonario, incapace della ferocia teutonica. Dopo la guerra Vittorio Foa scriverà: «i tedeschi sono così diventati una grande risorsa per la tranquillità della nostra coscienza».

Le voci degli ebrei italiani di allora sono un’eco, ancora oggi, imbarazzante, che ci obbliga a porci domande scomode. Uno di essi, Emilio Sereni, già il 7 settembre 1938 scrive che le leggi razziali sono una «follia delle tenebre»: dalle lettere, dai diari, dagli ultimi biglietti gettati dai treni piombati, si ricostruisce il clima di quei tempi di malafede e di paura, vissuti dalla parte delle vittime. Patriottici, fedelissimi della casa Savoia, fascisti convinti in molti casi, gli ebrei italiani raccontano il disorientamento, la sorpresa, la delusione, la paura e poi l’orrore.

Umberto Saba, scriveva da Trieste all’amico, anch’egli poeta, Sandro Penna già il 23 luglio 1938, presagendo la svolta razzista del regime: «sono un poeta italiano che, per essere nato da madre ebrea, sarò – così all’improvviso – tagliato fuori dalla vita del mio paese che ho tanto amato». Vittorio Pisa, da Firenze, il 22 novembre 1938 annota nel suo diario: «non rimane che voltarsi agli onesti e dire loro: sono israelita di religione, italiano di paese, nascita, lingua, ho separato la forma religiosa dalla politica, non ho invaso, perché non so da quanti anni residente in Italia (forse 800 0 900), ho sempre parlato questa mia lingua, ho sempre amato questa mia terra … Ma in Italia, considerare stranieri gli italiani, perché non ariani, considerarli stranieri, dopo un’ assimilazione, in malafede negata, ed invece esistita ed esistente, è un assurdo storico e sociale». Lo smarrimento e lo stordimento causato dai provvedimenti razziali si legge anche in una lettera del novembre 1938 di Primo Zevi, un impiegato, cacciato dal suo posto di lavoro: «come un furfante, un ladro; io che non avevo che un solo pensiero: la rettitudine, la serietà, l’amore della Patria … tutti mi guardavano come un essere … forse spregevole». Luciano Morpurgo, nel medesimo periodo, scrive nel suo diario il proprio sgomento di fronte a quella che gli appare come una metamorfosi impensabile: «mai avrei potuto pensare che da noi, nella civile e gentile Italia, madre delle genti, potesse allignare la trista pianta dell’antisemitismo». Con un solo motivo di consolazione: «unico conforto … la comprensione di tutto il popolo italiano, che non sente questi provvedimenti, e li disapprova».

L’amore di patria, l’obbedienza comunque riaffermata persino di fronte alle nuove disposizioni, l’incredulità, la convinzione che il popolo italiano fosse contrario alle leggi razziali («il popolo italiano non crede», scrive Morpurgo), ancora più dolorose per via del fervente amore di patria particolarmente sentito dagli ebrei italiani: ecco gli elementi frequenti in queste testimonianze. Elio Salmon in una lettera del 20 maggio 1943 scrive: «i cambiamenti avvenuti dopo l’inizio della campagna razziale nella nostra vita quotidiana: un senso di impaccio nei movimenti, di sorveglianza più o meno diretta, di grande incertezza per l’avvenire … Grande, purtroppo, è stato lo sbandamento nel seno delle famiglie, nel lavoro, nelle amicizie, nella ricerca spesso inutile di una tranquillità di vivere e di assicurarsi l’avvenire». E notava ancora: «il problema più importante, cioè quello dello studio dei ragazzi … ai quali era stato negato dapprima il pane della vita»: una trasparente allusione alla cacciata degli ebrei dalla scuola, cui si era rimediato, almeno in parte, con la creazione di corsi di studio alternativi presso le comunità ebraiche. L’editore Angelo Fortunato Formiggini si suicidò il 29 novembre 1938, gettandosi con un gesto volutamente plateale dalla torre Ghirlandina di Modena, in segno di protesta contro le leggi del settembre e del novembre 1938. Scriveva alla moglie: «non posso rinunciare a ciò che considero un mio preciso dovere: io debbo dimostrare l’assurdità malvagia dei provvedimenti razzisti richiamando l’attenzione sul mio caso che mi pare il più tipico di tutti».

Poi, dall’inizio della guerra e soprattutto dal 1942, quando il regime ha sempre più bisogno di un “nemico interno” sui cui scaricare il peso dei lutti, della fame, dei bombardamenti e dei disastri militari, gli ebrei italiani vengono aggrediti con disposizioni ancora più draconiane. Inizia l’epoca dei campi provinciali e del lavoro obbligatorio. «Siamo in duecento circa sorvegliati da un operaio. Cerchiamo di lavorare il meno possibile e con meno fatica, ma l’ispezione giornaliera dell’ingegnere capo ci obbliga a sfaticare per la lucrosa cifra di 22 lire al giorno circa e con un etto e mezzo di pane al giorno. Il lavoro è duro, ma lo spirito di noi è altissimo. Si sente e si spera presto la caduta di Mussolini»: così scrive nel suo diario Scipione Poggetto, nel 1942, e nella sua descrizione del lavoro coatto si intravede un’anticipazione del lager. Poi, dopo l’8 settembre, comincia la mattanza. Notizie dei massacri e delle retate si trovano in una pagina di diario di Emma De Rossi del 26 ottobre 1943: «da qualche giorno corre voce, con insistenza, che siano ricercati gli ebrei, presi e deportati chissà dove! Anzi si dice con sicurezza che a Roma siano già avvenuti fatti simili e sul Lago Maggiore». E’ un chiaro riferimento alla liquidazione del ghetto di Roma e ai fatti di Meina, su cui la De Rossi aggiunge: «dicono che alcuni di questi siano stati trucidati».
La stessa pagina riporta notizie di massacri avvenuti anche in Francia. Fra gli ebrei italiani, dunque, nell’ottobre 1943 era sostanzialmente chiaro che nei paesi occupati dai nazisti era in atto la persecuzione delle vite dei loro correligionari e non più solo l’annullamento delle libertà: «li mandavano chissà dove … ed alcuni di questi venivano anche massacrati», scrive ancora la De Rossi, la quale in un’altra pagina del suo diario, il 6 dicembre 1943, annota: «tutti i giorni poi si scrivono sui giornali articoli velenosi contro gli ebrei, che non possono essere in buona fede e sono una vera infamia».
In una nota di diario di Clementina Jerusum la consapevolezza della violenza contro gli ebrei nella forma di omicidio sistematico è piena: «pare che ci siano cose gravi in giro per noi. A Roma hanno fatto strage, dicono che a Mestre sia passato un carro bestiame pieno di ebrei diretto in Germania». Anche dal diario di Giulio Mortara appare chiaro che l’eccidio di Meina era pienamente noto: «il giorno prima ad Arona e a Meina erano accaduti fatti assai gravi», scrive il 17 settembre 1943. E poi il 24 settembre: «dal lago Maggiore il giorno prima erano stati ripescati i cadaveri di alcuni degli arrestati nei giorni precedenti». Nella stessa pagina, inoltre, c’è un altro dato importante: «i metodi nazisti avevano così applicazione anche in Italia con la complicità di italiani, dei fascisti che si erano resi loro complici col metterli nelle loro mani». Scrive ancora Mortara a proposito della complicità degli italiani nell’eccidio di Meina: «il delitto fu freddamente premeditato e i fascisti di Arona prestarono la loro complicità col compilare gli elenchi degli ebrei della zona e col mettere nelle mani delle SS le vittime da abbattere». In un altro diario questa ecatombe viene accollata alla «mostruosità tedesca»: è indubbio che il cosiddetto “alleato occupante” cercò di imporre una radicalizzazione violenta della questione ebraica, anche se, in taluni casi, e ciascuno per sé, certi prefetti (capi delle province, secondo l’organigramma amministrativo dell’epoca), come quello di Perugia, Armando Rocchi, non consegnano gli ebrei ai nazisti.

Silvia Forti scrive il 22 ottobre 1943: «c’è chi non esita a fare la spia» e poi il 16 novembre 1943: «oggi è passato davanti alla villa un autobus, di quelli che facevano il servizio passeggeri, ed ora servono alla polizia; era carico di donne, bambini e uomini anziani, tutti ebrei, sorpresi e arrestati all’Impruneta e dintorni». Il 2 novembre Silvia appunta un monito: «non bisogna destare sospetti; le spiate sono un pericolo sempre incombente». Giulio Iona da Fossoli, il più grande campo di transito italiano, scrive il 23 giugno 1944: «nessuno, all’infuori di noi, è testimone dell’accaduto. Forse noi non saremo più il giorno in cui potremo parlare. Per cui medito di scriverti, perché tu sappia». Lo stesso motivo per cui scrisse Primo Levi, lo stesso motivo per cui ha senso scriverne oggi. In una lettera di Livio Goldschmied scritta da Fossoli il 9 luglio 1944 si legge un passaggio che trasmette un brivido di orrore, avvertito solo dal lettore di oggi, ormai in grado di capire il peso atroce del nome che viene fatto: «la nonna è partita il 5 aprile per Auschwitz». Nessun’altra considerazione.
Una lettera da Mauthausen di Renato Pace del 13 dicembre 1944 induce, quasi per paradosso, a pensare che vi fosse consapevolezza, almeno in alcuni fra quanti in Italia erano scampati alla deportazione, dello sterminio sistematico in atto: «non date retta a tante storie che si raccontano, perché sono tutte chiacchiere e nulla più». Una bugia pietosa, scritta per tranquillizzare, rasserenare e minimizzare: un proposito del tutto esplicitato, del resto, in tutto il testo.

Elisa Guastalla nell’estate del 1945, a guerra finita e liberazione ottenuta, scrisse: «quello cui non mi rassegno è di aver visto possibile una persecuzione come la nostra, d’aver visto i miei simili imbestialire».

La memoria storica serve, se non altro, appunto a questo: a tenere a freno la bestia.
_______

© Gianni Paoletti, docente di storia e filosofia. Tra le sue varie pubblicazioni: “John Fante, storie di un italo americano” (2005) e “Vite Ritrovate” (2011)

Articolo precedenteGrazie al Rotary il Gualdo Casacastalda ha un nuovo defibrillatore
Articolo successivoLaboratorio analisi, il consiglio comunale respinge l’odg delle opposizioni
Redazione Gualdo News
Gualdo News è il nuovo portale di informazione 2.0 della città di Gualdo Tadino.