“… e portati, da banda a banda calcando la Tuscia, a pié dell’Appennino, pose il campo in vicinanza ad una borgata, che nomano i paesani Le Tagine, ed ivi si stette.” (Istoria delle guerre gottiche, Libro quarto, Capo XXIX, Procopio di Cesarea)
Siamo nel 552 d.C., era una giornata di inizio luglio, proprio come oggi, forse fine giugno, secondo alcune fonti. Il sole era pallido nonostante l’estate ormai piena, e sembrava scaldare meno del previsto. Poeticamente, possiamo ben considerare che fosse il “gelo della guerra imminente” a raffreddare, oltre agli animi degli uomini, anche la natura stessa, così da far tacere addirittura il canto degli uccelli. Scientificamente, e grazie a recenti carotaggi che si sono potuti effettuare sui ghiacciai dell’Artico, sappiamo che una grande eruzione vulcanica sottomarina all’altezza dell’equatore aveva in quegli anni alzato nell’atmosfera più vapore e pulviscolo del previsto, abbassando le temperature di qualche grado. Le ripercussioni, dal punto di vista economico e sanitario, furono incommensurabili. Nella città di Perugia, volgarmente, nelle fonti dell’epoca, Peroscia, si parla, per l’autunno appena successivo a quella data, di esondazioni e distruzione dei coltivi piuttosto ingenti. L’inverno, ancor peggiore, si sarebbe profilato gelido, col congelamento dell’intera superficie del lago Trasimeno, del Tevere e del fiume Chiascio suo affluente. Non sappiamo – le fonti non ce lo concedono – se anche il solitario Feo si facesse duro come la roccia, possiamo solo immaginarlo, in linea con gli accadimenti della zona. Secondo recenti studi socio – antropologici, appare verosimile che i mutamenti climatici abbiano condizionato anche le vicende tutte politiche dell’uomo, solo all’apparenza slegate da sovrastrutture naturali.
È pur vero che, in quei giorni del VI secolo dopo la venuta di Cristo, si racconta di due immense schiere di uomini; si fronteggiavano silenti in una stretta vallata dominata dalle alte vette degli Appennini, si scrutavano. Ci rifacciamo, per lo più, al celeberrimo Procopio di Cesarea, storico, retore e filosofo bizantino, prendendolo però con “le pinze”, narrando alcuni fatti che accaddero in questi giorni tenendo ben presente l’incertezza che aleggia sul racconto dello stesso narratore antico.
Anche le cicale, in questi stessi giorni di decine di secoli fa, parevano aver cessato il loro canto estivo. I bagliori metallici degli scudi degli hypaspistai, un gruppo scelto di Buccellarii – un corpo di guardie personali a protezione dei generali bizantini – riverberavano la luce per miglia e miglia. Le lance si muovevano come sostituite innaturali del grano calpestato a morte. Un vento inesistente e sinistro le scuoteva, in attesa d’essere scagliate da un’invisibile forza nervosa. I cavalli, retti a stento dagli uomini, sbuffavano dalle larghe nari scuotendo il capo nervosamente. Una voce ruppe allora il silenzio, un uomo avanzò dallo schieramento, quello che aveva piantato le tende a sud. Incedeva abbigliato di tutto punto, d’oro e vermiglio risplendeva, secondo i testimoni, e le penne sull’elmo a formare una criniera funesta facevano “spavento e meraviglia”.
“Qui vi ho ragunato, commilitoni, col proposito di arringarvi per l’ultima volta, poiché dopo l’imminente battaglia, siccome penso, non occorreranno altre militari concioni, ma con essa avrà fine la guerra. […] La mercé di queste considerazioni esponetevi, o prodi, con grandissimo coraggio al cimento, per mostrarvi in esso quali in realtà voi siete, né ad altri tempi serbate un che del vostro alto valore. Incontrate pur con fermezza qualunque difficoltà sia per appresentarvisi, né rendavi circospetti il pensiero che non abbiano col presente arringo ad aver fine le nostre pene. Datevi pur entro non curando armi e cavalli, affatto disutili le cose la dimane per noi; la fortuna, scempiatici per ogni modo, ha rinchiuso in questo sol giorno tutte le nostre speranze, siate adunque valorosi ed uscite coraggiosamente in campo. […] È quindi mio avviso che voi attendiate ad afferrare scaltramente i partiti di cui vi fornirà la buona Ventura, per combattere da prodi, e così poscia fruire de’ vantaggi che saranno per conseguitarne. Ma soprattutto vorrei imprimere nelle menti vostre il male gravissimo che ne coglierebbe fuggendo; col volgere degli omeri, abbandonata l’ordinanza, sol mirasi alla propria salvezza, ma se alla fuga tengon dietro inevitabili danni, il perseverante nella pugna meglio di chi l’abbandona a sé provvede. Non curate inoltre la folta schiera nemica, marmaglia ragunaticcia di svariatissime genti; di tali eserciti, opera il più dell’oro, non sono di fede e costante valore, poiché vuol natura che quanti hannovi popoli tanta siane la discrepanza de’ consigli. Non vi date a credere che gli Unni, i Langobardi e gli Eruli quivi da immenso danaro trascinati sieno per combattere infino all’estremo della vita, che certamente non l’hanno così a vile da estimarla meno dell’ottenuto danaro […] Pieni adunque la meole di questi pensieri facciamoci ad assalire il nemico.” (Istoria delle guerre gotiche, Procopio di Cesarea, traduzione dal greco di Giuseppe Rossi, 1838)
Così parlò Totila, re degli Ostrogoti, giunto in Umbria per contrastare il generale bizantino Narsete. Le parole di Procopio, messe in bocca al goto, che non sappiamo con certezza essere vere, sono comunque suggestive, ancor più se mantenute così come la “vetusta” traduzione della prima metà del 1800 imponeva, lasciandoci quel sapore d’antico e romantico. Il comandante d’origine armena, Narsés, Narsete per noi, era descritto come un uomo terrificante, intelligente e ottimo stratega, nonostante l’età avanzata. La famosa arringa del goto Baduila, per noi Totila, pronunciata davanti all’esercito per incoraggiarlo e spronarlo alla “pugna”, suona come qualcosa di epico, eroico, mitico e astratto. Il discorso avveniva subito dopo le parole dello stesso generale inviato dall’imperatore Giustiniano, che a sua volta, nella sua stoica impassibilità, aveva parlato alle truppe.
Molte lingue e molti popoli si ritrovarono sulla piana di Tagina in quel luglio di 1468 anni fa. La stessa traduzione del Rossi ci dà un assaggio di quel miscuglio di alleati che i romani d’oriente si erano portati dietro. C’erano Slavi, Greci, Romani, Persiani, Gepidi, oltre agli già citati Unni, Eruli e Longobardi, ma soprattutto c’erano i due comandanti: Totila e Narsete, che entrano a buon diritto nella leggenda.
Il famoso “temporeggiare” del re Ostrogoto, così ci riporta sempre Procopio di Cesarea (secondo il quale il re “barbaro” si cimenta anche in un “ballo” e mostra le sue doti nel maneggiare la lancia), era forse dettato dal tentativo di guadagnare tempo nell’attesa dei rinforzi, che effettivamente arrivarono, dopo mezzogiorno.
Secondo le stime, 25 – 30.000 uomini si muovevano agli ordini di Narsete, poco più della metà, forse, erano quelli a disposizione di Totila. Poi, proprio dove oggi, sulla verdeggiante pianura, possiamo ancora ammirare l’antico pozzo (benché non ci sia certezza alcuna sul luogo esatto della battaglia, per mancanza di prove archeologiche), laddove si spande alto il grano appena accarezzato dal vento che spira da est, la furia della guerra si sarebbe scatenata.
Procopio però, ci narra prima l’episodio di una lotta “tra campioni”, non dissimile dai comportamenti eroici, degni delle epiche gesta che ci ricordano l’Iliade e il celeberrimo scontro tra Patroclo, vestito con l’armatura di Achille, ed Ettore. Un espediente letterario che esula dal nostro modo di fare storiografia, ma che è comunque interessante riportare. Nella fattispecie è Cocas, un bizantino disertore schierato con Totila che, non appena il suo re ha cessato il parlare, si sfila dai ranghi invitando chiunque avesse fegato, allo scontro singolo. Anzala l’Armeno accoglie la sfida; e come Patroclo soccombette sotto le mura di Ilio, anche Cocas perde la vita a Tagina.
La battaglia ebbe quindi inizio, verosimilmente nel pomeriggio, incominciata proprio dai lancieri Ostrogoti che caricarono l’avversario come furie infernali tra strepiti e urla. Ma il coraggio, da solo, poco poteva contro le migliaia di arcieri che, in quello stesso istante, scoccarono i loro dardi coprendo il sole. Venne la notte su Tagina, e piombò l’oscurità sull’esercito Ostrogoto; seimila di loro, alla fine, rimasero sul campo esanimi.
Totila, protetto da ormai solo cinque cavalieri, nell’intento di salvarsi la vita, venne raggiunto da una freccia (o da una lancia), spirando da lì a poco. Leggenda narra che il sovrano venisse sepolto presso la località di Caprara, oggi frazione di Gualdo Tadino, assieme ad un non ben precisato tesoro che, negli anni a venire, avrebbe alimentato le fantasie di molti.
Pur non avendo certezza del luogo preciso dove si svolse la battaglia (la località di “Busta Gallorum” che cita lo stesso Procopio ha alimentato disquisizioni accademiche che perdurano tutt’ora), sappiamo per certo che Tagina, già provata, subì un ulteriore tracollo con la venuta degli eserciti, anche se, almeno secondo il Codice N. 341 conservato presso la Biblioteca di Assisi, Totila, così come aveva concesso ai perugini di tornarsene a vivere in tranquillità, anche ai tadinati avrebbe promesso, in caso di vittoria, una duratura pace. Pace che non giunse mai, evidentemente.
Quasi 1500 anni dopo, ricordiamo questo evento come fosse una sorta di racconto mitico, leggendario, guardiamo a quella pianura come fosse ancora colma degli echi lontani dei soldati e del clangore delle spade. Forse è proprio questa incertezza, questo capitolo ancora aperto della nostra storia, a cavallo tra antichità e medioevo, che rende la battaglia, e i suoi protagonisti, così affascinante, tanto da essere citata già nelle Cronache Gualdesi del 1300, un tempo conservate a San Francesco, da ispirare saggi storici (come “La battaglia di Tagina in Procopio e nella toponomastica locale” di Valerio Anderlini), romanzi (ricordiamo il recente romanzo ucronico “Il regno di Tadinum” del gualdese Luigi Righi) e non in ultimo opere artistiche, come il celeberrimo omaggio su ceramica in Via Storelli creato dall’artista e ceramista gualdese Stefano Zenobi (foto in copertina).
L’ignoto affascina l’uomo da sempre; ci avviciniamo allora al vecchio tracciato della Via Flaminia, immaginiamo un suo passato, un po’ eroico e leggendario a tratti, sogniamo ad occhi aperti un fil rouge che ci porta da quel 552 d.C. a questo tremendo 2020 da risollevare. Perché in fondo, è proprio quell’aura di mistero ad aver incoronato questa vicenda, che oggi vogliamo rievocare, quale simbolo d’un passato che non esiste più, ma che ha ancora la forza di essere presente ed ispirare un senso di comunità.
© Matteo Bebi – GUALDO NEWS