- di Gianni Paoletti
C’è una serie di foto che li mostra insieme, il diavolo e l’acqua santa: 1964, Festival del cinema di Venezia, Pasolini e Moro, seduti vicino, conversano con quella cortesia imposta dal ruolo, dalle circostanze e dall’educazione. Era la prima de Il Vangelo secondo Matteo, opera del marxista, per quanto eterodosso se non proprio eretico, Pasolini.
Lo statista cattolico artefice del centrosinistra e l’intellettuale che aveva raccontato, per primo, le borgate, con la loro miseria e una sorta di brutale innocenza, di purezza primordiale, di misticismo sottoproletario, quello narrato ne La ricotta, in Accattone o in Mamma Roma.
Di lì a pochi anni un Pasolini sempre più cupo, disincantato e apocalittico avrebbe voluto, come scriveva sul “Corriere della sera”, che un tribunale legale processasse la DC, il partito di Moro, per le sue responsabilità. E proprio Moro nel ’77 a Montecitorio disse che la Dc non si sarebbe fatta processare «nelle piazze» per i suoi scandali. Proprio lui, «il meno implicato» nelle «cose orribili» messe in atto dal «Palazzo», come gli riconobbe Pasolini sempre sul “Corriere”, nel 1978 sarà sottoposto, lui solo, e lasciato solo, ad un processo delirante nella cosiddetta “prigione del popolo” allestita dalle Brigate Rosse. Per paradosso, fu Pasolini, invece, a subire una valanga di processi legali, per via dei suoi film e dei suoi romanzi.
Queste due vite così divergenti, per un’iperbole tutta italiana, manifestarono certi punti di contatto: qualche parallelismo, appunto. A partire dal fatto, certo accidentale, che Moro, come Pasolini, amava molto il cinema. Lo statista e lo scrittore avevano intuito che la settima arte, proprio a petto di un paese annodato in mille complicazioni contraddittorie come il nostro, era in grado di mostrarne la “realtà”. Alla quale si contrapponeva la finzione della Tv, di cui tutti e due, comunque, furono personaggi molto popolari: la televisione stava costruendo un paese fittizio, irreale, fatto di consumatori presi da una smaniosa esaltazione del superfluo, del superficiale. Entrambi avevano compreso la complessità della società italiana, ampliatasi a seguito del boom economico e delle grandi trasformazioni da esso provocate.
Moro e Pasolini avevano capito che la crescita economica non era stata governata: uno «sviluppo senza progresso» la definì Pasolini, che aumentava la voracità di quei poteri economici reazionari che Moro aveva intuito alla radice delle più pericolose spinte antiprogressiste. Tutti e due avevano compreso, e soprattutto detto, che l’anticomunismo in Italia era spesso veicolato dalla nuda volontà di mantenere privilegi, posizioni e benefici. Non a caso, infatti, entrambi furono molto odiati da una certa destra. Entrambi vicini, attenti, sensibili, anche se in forme diverse, all’Italia popolare, povera e malmessa, furono continuamente del mirino dell’Italia conservatrice.
Da qui la loro comune percezione del fascismo come di un pericolo incombente. E non solo per quello che Pasolini aveva scritto nel celeberrimo articolo del novembre 1974 sulla stagione delle stragi (“io so”) e per quanto Moro scrisse su Piazza Fontana nel Memoriale estortogli nel 1978 dalle Br, con un’analisi assai simile di quei fatti brutali. Ma soprattutto perché Pasolini e Moro avevano capito che la nuova frontiera del fascismo non era più quella del golpe Borghese, sconfinato in una mezza operetta l’8 dicembre del ‘70, ma nel devastante, selvaggio potere dei consumi di massa, che non aveva più bisogno di marce, triumviri, dittatura, manganellate e olio di ricino, piuttosto di massicce campagne pubblicitarie veicolate da una Tv di Stato connivente.
Gli ambienti umbratili dell’Italia ultraconservatrice, fosse tale per convinzione o per convenienza poco contava, vedevano in Moro e in Pasolini l’addensarsi di una rischiosissima simpatia, anche se critica e cauta, in un possibile ruolo politico finalmente attivo del PCI nell’area di governo. Pur essendo coscienti entrambi dei dogmatismi ottusi del comunismo italiano, lo scrittore e lo statista avevano capito che la democrazia bloccata, inchiodata all’impossibilità di fare le grandi riforme, poteva ritrovare una via di compimento solo se il potere fosse stato finalmente condiviso, alternato, fra i due grandi partiti di massa.
Entrambi furono vittima di un omicidio politico, comunque siano andati i fatti. E non solo e non tanto per lo strascico di misteri e incongruenze che hanno caratterizzato la loro fine, rafforzando il genere tutto italiano dell’irrisolto perenne, che ci ha educato al non sapere come condizione normale del cittadino di fronte al Potere, opaco e nebuloso per definizione.
Furono omicidi politici soprattutto perché l’Italia senza di loro non imboccò le strade che avrebbe potuto intraprendere: nelle grandi riforme del sistema e nella riaffermazione di un ruolo di responsabilità dell’intellettuale, non confinato all’ufficio esornativo di sodale di corte o a quello di specialista di nicchia, politicamente innocuo.
Da ultimo: Il Memoriale e Petrolio riemersero, più o meno trent’anni fa (il Memoriale nella sua seconda più radicale versione), come opere incompiute, postume, canovacci monchi, forse portatori di segreti, di intrecci inconfessabili. Moro e Pasolini condividono, così, nella memoria storica italiana il ruolo di morti imbarazzanti e profetici, rimpianti come fossero due grandi occasioni venute meno, mancate. Fra loro era esistita, insomma, come scrisse Sciascia, una qualche «oscura correlazione». Quel legame enigmatico è il Paese che non siamo diventati, il non accaduto di cui abbiamo ancora, sempre, una vaga, indefinita nostalgia.