Oggi Gualdo Tadino compie 787 anni. L’ultima riedificazione è datata infatti 30 aprile 1237, come compare in un atto dell’epoca. Fu in quel giorno che i gualdesi si rivolsero all’abate Epifanio, per ottenere il permesso di poter costruire su Colle Sant’Angelo, all’epoca di proprietà dell’abbazia di San Benedetto, quella che è l’attuale città. Rari sono i centri abitati che possono documentare con esattezza la propria data di fondazione e Gualdo Tadino è uno di questi.
Di seguito riproponiamo un articolo dello storico Matteo Bebi sulla storia della riedificazione della città.
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“Ben 787 anni fa, secondo la tradizione, un incendio consumò le abitazioni del villaggio edificato in Val di Gorgo. La città, costruita quasi completamente in legno, arse probabilmente per cause incidentali ma la leggenda, in epoca successiva, avrebbe addossato la colpa alla strega oggi nota come Bastola. Non tutto però era perduto, e gli abitanti non erano di certo arrendevoli: il volto di Gualdo Tadino così come lo conosciamo oggi sarebbe infatti nato da lì a poco.
Colui il quale viene definito dalle fonti Syndicus (termine molto studiato in storiografia, per il quale non possiamo adoperare una semplice traduzione con il moderno sindaco), a noi noto col nome di Pietro di Alessandro, si incontrava con l’abate di San Benedetto, Epifanio, che aveva facoltà anche signorili sul territorio. I gualdesi chiesero così la possibilità di stanziarsi sul colle ai piedi della Rocca, già esistente ma completamente differente rispetto ad oggi; è verosimile che il castello fosse, in quel periodo, nulla più che una torre d’avvistamento costruita in buona parte in legno.
Epifanio, quel 30 aprile del 1237, accettò che Gualdo venisse ricostruita sul colle Sant’Angelo, l’angelo guerriero caro alla tradizione longobarda, chiedendo in cambio il pagamento di un canone nonché la totale appartenenza alla parrocchia di San Benedetto.
“Anno Domini 1237, ultimo mensis aprilis, Pont. Pap. Greg. IX, imperante Federico II, inditione X dominus Fanius, abbas monasteri S. Benedicti, concessa in perpetuam emphyteusim Petro Alexandri…”
Così l’incipit di quello che era un vero e proprio contratto, un accordo tipico in epoca medievale, scaturito dal grande frazionamento di potere in seguito alla disgregazione dell’impero carolingio.
Determinati accordi, spesso presi tra monasteri e privati, venivano definiti “contratti livellari” (perché dotati di una scrittura, un libellum appunto, erano generalmente agrari), mentre un poco più rari sono quelli presi con un intera comunità, ma non inesistenti.
Per portare un esempio non dissimile, nel 1095 i Consoli del comune di Asti (è uno degli accordi di entità comunale più antichi a noi pervenuti fino ad oggi) si vedono investiti del ruolo di guida del contado da parte del vescovo, Oddone: “l’anno dell’incarnazione del nostro signore Gesù Cristo 1095, il 28 marzo, terza indizione, (…) il signor vescovo Oddone dell’episcopato della santa chiesa di Asti fece investitura ai Consoli della città…” (Codex Astensis qui de Malabayla communiter noncupatur, Roma 1880).
Nel documento piemontese si citano i consoli; nel celebrare la fondazione della nostra città vogliamo anche noi ricordare le stesse figure, come il console Raniero, documentate a Gualdo ben prima del trasferimento in Val di Gorgo, segno di una formazione comunale autonoma precedente al XIII secolo, in linea con l’epoca “consolare” degli altri comuni, ma con la strabiliante forza della identità cittadina che non tutti i centri potevano vantare, tanto meno quelli più piccoli.
Sarebbe poi arrivato anche Federico II sotto le nostre montagne, che non si sarebbe adoperato solo nella ristrutturazione della Rocca Flea ma avrebbe anche predisposto l’erezione della cinta muraria e l’impostazione urbana, con lo scopo preciso di fare di Gualdo una delle città ghibelline in funzione antiguelfa, in particolare per contrastare la capofila del centro Italia, Perugia.
Una lunga avventura dunque, quella di Gualdo Tadino, che in quel giorno mise la prima pietra della città che viviamo oggi, ma che lo fece con secoli di storia alle spalle, mai disconosciuta. Un viaggio che perdura tutt’oggi, un luogo che abbiamo il dovere di proteggere e custodire”.
(Matteo Bebi)