Oggi, 30 novembre, ricorrono venti anni dalla scomparsa di Rolando Pinacoli, sicuramente uno dei sindaci che più ha segnato la storia di Gualdo Tadino.
In esclusiva per Gualdo News il figlio Emiliano ha scritto questo sentito ricordo di suo padre.
Me lo chiedevo spesso quel periodo in cui Rolando volò via: chissà come sarà tra venti anni, chissà come sarò io, come sarà la sua presenza dentro di me, chissà se avrò nitida la sua figura, la sua voce, il suo modo di camminare. Ecco! È arrivato il tempo! Ora ho le risposte, ma a essere onesto mi farei altre cento, mille domande.
A volte ci penso. Chissà come avrebbe vissuto Rolando in questi tempi così caotici e strani. Se avrebbero scalfito la sua grinta, la sua voglia di essere un combattente. Se fosse venuta meno quella sua cocente passione e se si fosse stancato un pochino di stare in mezzo alla gente come ha fatto per tutta la sua vita. Oggi sono passati venti anni e molte cose sono cambiate da allora. Chissà se mi riconoscerebbe ora che ho quasi la sua età quando se ne andò. Mah, boh, non lo so. L’unica cosa che mi piace pensare è che pure oggi, a 78 anni suonati, se qualcuno lo incontrasse per strada e gli chiedesse: «Oh, come stai Rolà?», ancora una volta, come tutte le volte con tono fiero e sprezzante risponderebbe: «In trincea. Sempre in trincea».
IN TRINCEA
Per lui la “trincea” era una condizione mentale, la zona franca, il suo disegno esistenziale. Una trincea che parte da lontano, da quando era bambino ai tempi delle sassaiole tra le bande dei “Monticelli” e quelle della “Capezza”, fino a quella della contestazione studentesca del ’68 all’Università di Perugia. Perché non riusciva a vedersi in altro modo. Lui era un combattente. Aveva questa visione romantica della lotta, che era quella a tratti poetica di certi pugili suonati degli anni ’50 che amava tanto; quelle storie piene di miseria, di emigrazione ed emarginazione, quegli occhi pieni di pugni che dicono: “Dai, avanti, vieni qua, dammele di santa ragione, ma io da qui non mi muovo”.
Non riusciva a immaginare la vita senza una battaglia, senza qualcosa per cui lottare. La trincea era anche il suo modo di dirti “tranquillo, ci sono qua io che combatto per te”. Era il modo che aveva di rassicurare tutti quelli che si fidavano di lui, che non li avrebbe abbandonati.
MIO PADRE
Rolando Pinacoli, “sindaco guerriero” di Gualdo Tadino, era mio padre, anche se io da quando avevo 12 anni avevo smesso di chiamarlo babbo. Non so perché, sarà stato il complesso di Edipo, saranno stati quei modi irruenti che aveva, sarà stata la voglia di essere ribelle che ti assale quando sei adolescente, ma molto più probabilmente sarà stato che vivere accanto a un ego piuttosto spazioso come quello di mio padre non era facile.
Avevamo un rapporto terribile, conflittuale, sempre in tensione, mai disteso. E’ inutile essere ipocrita e tessere le lodi al grande Sindaco, perché non era così. O meglio, per me non era il Sindaco, quindi mi dispiace se qualcuno vorrà leggere qui tutte quelle cose che lui ha realizzato come amministratore. Io, sapete, molte neanche le conosco, perché per me il suo ruolo era qualcosa di molto ingombrante. Non sono stato mai il figlio che è vissuto all’ombra del padre, ho sempre cercato di prenderne le distanze. Avevo solo sedici anni quando nel maggio del 1990 Rolando diventò sindaco e in un attimo, in città, sono passato dall’essere un anonimo, invisibile e timido ragazzetto, al “figlio del Sindaco“. In una città di provincia dove tutti si conoscono questo equivale all’avere una lente d’ingrandimento su tutto ciò che fai. Sapete, non è semplice. Da piccolo me le inventavo tutte per far capire che io ero Emiliano, qualcosa che non c’entrava niente con mio padre, ma niente. Ero il “figlio del Sindaco” e questa cosa veramente non mi ha mai abbandonato.
PINOCCHIO E GEPPETTO
Devo essere sincero: lui ce la metteva tutta per capirmi, per venirmi incontro, per modificare questo rapporto. Ricordo ancora quella mattina di fine agosto 1988. Tornò a casa dopo un consiglio comunale durato tutta la notte in cui insieme ad altri dissidenti democristiani aveva fatto cadere la giunta socialista di Gino Bedini. Venne verso di me e mi disse: «Si vincono tutte le battaglie tranne che con te». Ma io scappavo sempre e lo facevo disperare. Eravamo come Pinocchio e Geppetto, anche se lui era molto meno paziente e pacioccone del falegname della favola di Collodi. Eravamo sempre in scontro, ma io in fin dei conti nella famiglia perfetta non ci ho creduto mai. Ho sempre dubitato di quei quadretti impeccabili proiettati all’esterno, perché “i parenti sono come le scarpe: più sono stretti più non ti fanno camminare”. La famiglia è vitale e non vorrei togliergli importanza, ma è altrettanto vero che all’interno delle famiglie c’è un nucleo di anime che devono coesistere in armonia. Ecco, tenere saldi gli equilibri emozionali di queste anime in un contesto emotivo intimo e di affetti è la cosa più difficile che c’è, perché ci possono essere una miriade di emozioni a sballare tutto. Va be’, discorso lungo e io non sono Freud. Con Rolando le cose non erano rose e fiori, non mi impicciavo del suo mondo, anzi lo guardavo con sufficienza. Per me era tutto molto incomprensibile, tutte quelle persone che gli stavano dietro, i suoi successi. Era “roba sua”, del mio “grande nemico”. Io avevo altro che mi interessava, stare dietro a mio padre non era tra i miei obiettivi e tutto ciò che lo riguardava era piuttosto inutile, come tutta quella gente che lo circondava.
Poi, il giorno del suo funerale, cambiò radicalmente la mia visione di ciò che Rolando era ed aveva creato.
IL ROLANDO PERSONALE
Credo di non aver mai abbracciato e baciato tante persone come quella volta. Gente di ogni tipo, di ogni estrazione sociale, gente che veniva da me distrutta e in lacrime per farmi le condoglianze per la mia grande perdita, quando dentro di me sentivo invece che ero io a doverle fare a loro, per aver vissuto forse meglio di me un uomo che avevo sempre osteggiato. Questa cosa si è protratta anche alcuni anni dopo la sua scomparsa. Tanti gualdesi che non conoscevo mi avvicinavano e mi accarezzavano, alcuni con le lacrime agli occhi, e mi dicevano: «Quanto gli somigli» e poi si affrettavano a raccontarmi una storia, aneddoti con Rolando come “attore principale”, perché a volte ciò che mi dicevano sembravano piccole trame di film. Tutti avevano un legame, un fatto, tutti avevano un loro “Rolando personale“, tutti mi parlavano di lati di mio padre che non conoscevo.
Questi racconti anche di piccole cose, piccoli momenti, ma molto intensi, mi hanno aperto gli occhi. Ho capito che la cosa più potente che hanno gli uomini sono i ricordi. Non c’è nulla che abbia più valore dell’intimità che lasci. Tutti noi siamo emozioni. Tutti noi siamo in grado di emozionare lo scambio di tutto ciò. E’ il senso di tutto.
Io credo nei ricordi, li cerco, mi coccolano. Avere avuto un padre che ha alimentato tutta questa grande carica di umanità è qualcosa che mi scombussola un pochino.
L’ASCENSORE
Negli anni tutto si è affievolito e oggi non sono più tante le volte che mi fermano per parlarmi di lui.
L’ultima volta è successo alcuni mesi fa. Stavo andando a prendere l’ascensore che da piazza Soprammuro va a agli ex Orti Mavarelli e con me c’erano una giovane donna e il suo figlioletto che avrà avuto 5 anni. Premo il pulsante per scendere e mentre scivoliamo giù lei mi guarda e mi fissa come se fossi stato uno strano animale. Molto lentamente si abbassa verso l’orecchio del piccoletto e indicandomi gli dice: «Lo sai chi era il papà di questo signore qui? E’ stato il Sindaco. Una persona che ha voluto tanto bene alla nostra città, si chiamava Rolando Pinacoli non te lo scordare questo nome». Si apre la porta, usciamo dall’ascensore, cammino verso la macchina e ho voglia di piangere. Mi fermo e penso: “Ma come è possibile che questa ragazza ricordi mio padre. Quando lui era in vita era solo una bambina. E addirittura avere un ricordo talmente vivo da trasmetterlo al figlio”. Tutto ciò mi meraviglia.
La memoria. E’ importante la memoria!
Anche io ovviamente ho il mio “Rolando personale”. E’ fatto di bei momenti che per lo più riguardano la mia infanzia: i giri in macchina le notti d’estate con i finestrini calati sul lungomare di Senigallia e I’m on Fire di Bruce Springsteen come sottofondo, mentre fuori le insegne colorate degli hotel incantavano l’aria. Il gioco del porcellino, quando facevano la Festa dell’Unità in piattaforma: Rolando, vestito come uno di Lotta Continua, giocava a fare l’intrattenitore e faceva sbellicare dal ridere, perché sembrava uno di quei presentatori ruspanti delle tv private. E poi i giri seduti in due sul “Ciao” verde pisello di mamma, scendendo da Valsorda cantando a più non posso Nuovo Swing di Enrico Ruggeri. Piccoli momenti in cui ero davvero felice.
IL PARTITO COMUNISTA ITALIANO
Se penso a mio padre e alla mia infanzia c’è una cosa da cui non posso prescindere: il Partito Comunista Italiano. Io sono uno di quei bambini nati, cresciuti e svezzati dalle robuste braccia del PCI. Erano gli anni ’80, dopo il picco storico del 1976, quando i comunisti prendevano il 34% alla Camera e il 33% al Senato. Il partito all’epoca era forte e coeso e i comunisti gualdesi all’epoca erano un gruppo molto numeroso e unito. Io me lo ricordo bene, perché tutte le sere avevo la casa piena di gente. Mio padre aveva un amore e una passione viscerale per quegli ideali, tanto che quando si trattò di scegliere un nome per il suo primo figlio scelse quello di Zapata, rivoluzionario messicano: Emiliano.
Erano tempi in cui la politica era molto differente da quella di oggi. Era la politica della partecipazione e non del singolo. Loro erano i compagni, quelli della sezione “Trento Alimenti“. Erano una banda, un manipolo di uomini con il cuore che traboccava d’ardore. Mi ricordo le loro riunioni, Rolando mi ci portava sempre, ma non per chissà quale indottrinamento precoce. Solo perché facevo le scuole elementari e avevo i problemi e i compiti di matematica da risolvere, quindi lui, per semplificare la cosa, la sera mi portava lì con la cartella e i quaderni e mi lasciava a Ruggero Anderlini, uno dei compagni più esperti in materia. Ruggero prima delle riunioni mi aiutava con addizioni e sottrazioni; era normale, perché tra compagni ci si aiutava. Dopo aver finito i compiti mi mettevo in un angolo e assistevo. Non capivo assolutamente nulla di ciò che dicevano, ma guardarli era come assistere a uno spettacolo teatrale. Facce ruvide e segnate che sbraitavano e si dimenavano. Sembravano maschere, un’umanità plastica dove il furore la faceva da padrone. Non c’era un capo, tutti avevano voce in capitolo. Era una politica poco raffinata, genuina e assolutamente vera. A volte litigavano, a volte anche parecchio, ma alla fine l’ideale li faceva stringere intorno come fratelli.
Bei tempi. La sede del PCI, il freddo di quelle stanze sopra piazza Martiri, l’odore di tipografia dei manifesti freschi. Poi un giorno del 1983, ad Assisi, mio padre mi mette sulle spalle per vedere Enrico Berlinguer e io di quel momento ho un fotogramma vivido nella mia mente. Un fotogramma indelebile.
IL CONCERTO DEI CURE
Però i ricordi più belli con Rolando c’entrano poco con la politica, più che altro fanno parte di frammenti di vita quotidiana.
Nel 1989 ero in fissa totale con The Cure, una band musicale inglese e nei suoi vari tentativi per risanare il nostro rapporto, un giorno di fine maggio si presentò a casa con due biglietti per un loro concerto. Io ero su di giri e il 6 giugno partimmo alla volta di Prato. Io e lui, soli.
Era felice di questa scampagnata in macchina con il figlio ed era tutto uno scherzare, un fare finta di essere grandi amici. Era felice di avermi al suo fianco, ma appena arrivammo allo stadio il sorriso che aveva sulle labbra diventò una smorfia di dolore: la vastità umana presente era molto differente da quella dei cortei con la bandiera rossa a cui era abituato. Non c’erano operai, metalmeccanici con i capelli arruffati e la barba incolta, ma flotte di ragazzi dal sesso incerto, pallidi, diafani, vestiti di nero, con il trucco pesante e i capelli fissati in aria nelle più disparate forme. A un tratto il silenzio totale. Guardandosi intorno si era reso conto di essere lui il tipo strano e oltretutto era l’unico sopra i 40 anni. All’entrata e visibilmente a disagio mi disse: «Perché non andiamo sulle gradinate a vedere il concerto? Stamo meglio». E io: «Stai scherzando! Questo è il giorno più bello della mia vita e non posso vederlo da lontano». A malincuore mi seguì e quando il concerto iniziò io mi fiondai davanti al palco. Lui rimase un po’ dietro, stando fisso e impalato nel bel mezzo del campo.
Ad un tratto non restò più inosservato: camicia slacciata, catenina d’oro sul petto, jeans della Standa, capigliatura scura leonina fluente, baffo selvaggio e occhiali da sole Rayban a goccia. Il look era quello da perfetto narcotrafficante colombiano e da quel momento per tutto lo stadio comunale di Prato, lui era il pusher!. Dopo qualche minuto, tipi dalle sembianze piu assurde iniziarono a girargli intorno come dei condor. Nel volto di Rolando lo smarrimento totale. I più audaci, oltre a fissarlo come fosse un oracolo, gli si avvicinavano, sporcandogli l’orecchio di rossetto rosso e gli sussuravano: «Hey mister, hai mica qualcosa per farmi andare in orbita?». Erano bastate queste poche parole per far riaffiorare in lui ciò che anni spesi nella pubblica amministrazione avevano levigato, mitigato e civilizzato. L’ex “bulletto dei Monticelli” rispose al giovane e sprovveduto punk: «Un manrovescio c’ho! Vedrae che volo te fo fa’ si nun te leve». Ma poi continuavano: «Amico, hai qualcosa da passarmi?». E lui, in gualdese stretto: «Ma que voe? Camina sciapo, mo te passo un banco… arvatte!». E così per tutta la sera. Era un momento surreale. Davanti a me il mio gruppo preferito che stava suonando tutte le mie canzoni e che commuoveva. Poi mi giravo e vedevo mio padre che sbracciava e sbraitava contro chiunque.
Durante il viaggio di ritorno il clima era totalmente differente e a un tratto iniziò pure ad urlarmi contro: «Ma te rendi conto do m’hai portato e que m’hai fatto fa? Lo vedi quante ne fo per te? Almeno dimme grazie». Lo guardai, gli passai una bottiglietta d’acqua e poi entrambi sbottammo a ridere a più non posso.
Nel corso degli anni quel concerto è stato il suo aneddoto preferito da raccontare in mia presenza. Ci si vantava pure e lo usava spesso tra i suoi amici come esempio delle sue larghe vedute e della sua mentalità progressista. Diceva: «E poi non lo sapete, ma io sono stato al concerto dei Cure tra i dark, i post punk ed i new wave’», ovviamente evitando di raccontare l’altra parte della storia.
LA SBORNIA D’AMORE IN PISCINA
Insomma, tra me e Rolando il rapporto era a volte tragicomico. Ci scontravamo spesso, ma una sera ci fu qualcosa di veramente emozionante. Era l’estate del 1991, lui era stato eletto sindaco da poco più di un anno e la tensione tra noi due era alle stelle. Io ero il figlio ribelle e facevo di tutto per attirare l’attenzione, ma quella sera di luglio ero alle prese con qualcosa che mi aveva spezzato il cuore: mi ero innamorato di una giovanissima signorina, che un pochino mi ci aveva fatto credere per poi dirmi che ero solo una sorta di “fratellino”. Nulla di strano, sono quegli amori adolescenziali che abbiamo vissuto tutti, ma per me fu devastante.
Lo scenario era la piscina comunale di Gualdo Tadino ai tempi in cui era l’attrattiva serale più popolata della città. Ero lì dal pomeriggio e sapevo che quella sera lei avrebbe festeggiato il suo compleanno. Per farmi coraggio e tentare l’ennesimo approccio mi feci due bicchieri di birra; non c’ero abituato e ad una certa ero completamente ubriaco. Appena la vidi tentai di parlarle, ma lei neanche mi filava di striscio. Al che le feci una piazzata furibonda. La musica si fermò, tutta la gente mi guardava. Iniziai a offenderla e forse ad essere anche un po’ molesto. Tutti dicevano: “Guarda! Quello è il figlio del sindaco, che scemo”. Io mi sentivo un duro, ma non lo ero. Ero soltanto giovane e molto stupido come ogni tanto si è nella vita. La cosa iniziò a degenerare e i ragazzi della cooperativa Opus, che gestiva la piscina, mi allontanarono e io corsi via rifugiandomi nel garage di un vicino di casa. I miei genitori erano stati già avvisati e stavano arrivando per darmi una bella lezione. Appena li vidi fuggii, facendomi di corsa tutta la ripidissima salita di via Umeoli.
Rolando era dietro di me e correva dicendomi: «Fermati! Fermati disgraziato». Sembravamo veramente Pinocchio e Geppetto. A un certo punto, stremato, mi accasciai sul muretto all’inizio della strada verso la pineta di San Guido. Arrivò anche lui e con le mani appoggiate alle ginocchia, insieme ad un fiatone epocale mi disse: «Mo facciamo i conti». Mi sedette accanto, ancora col fiatone, e mi guardò. Io lo riguardai, un attimo di silenzio e poi scoppiai a piangere a dirotto sulla sua spalla. Lo abbracciai e gli gridai tutta la mia fragilità per la prima volta. Mi sfogai, gli dissi tutto. Tutto ciò che mi faceva soffrire. Ci abbracciammo forte, fortissimo. Ed era la prima volta dopo tanto tempo. Erano crollati tutti i muri e ci raccontammo per ciò che eravamo. Senza più paure. Quella è stata la volta in cui ho sentito mio padre più vicino. Non c’era più la rabbia, eravamo solo due pulcini bagnati, padre e figlio che non sapevano più che pesci prendere l’uno con l’altro.
Dopo quello sfogo ci alzammo e piano piano tornammo verso casa. Il giorno dopo per farmi contento mi portò al mare dove andavamo sempre quando ero bambino. Poi il tempo passò e ritornarono i muri. Tutto come prima.
Non ho più parlato con lui di quella notte e non ho mai saputo neanche se per lui era stata importante e se la ricordava. Io non l’ho mai scordata, è stato un momento catartico. Un bel ricordo di quelli che riaffiorano spesso. Come quella volta che eravamo su un aereoplano e stavamo atterrando a New York. Dall’oblò del finestrino si vedeva Manhattan avvolta da una bellissima alba, un’immagine stupenda, quelle di cui hai l’esigenza di condividere con qualcuno. Seduto vicino a me c’era lui che russava come un ghiro. Lo svegliai e gli feci cenno di guardare. Un po’ rintronato si sporse verso il finestrino, mi fece un mezzo sorriso e in silenzio, insieme, ci godemmo quello spettacolo. Questo è davvero l’ultimo bel ricordo che ho con lui. Poi venne rieletto Sindaco con un sacco di voti e tra di noi i muri erano sempre più alti. Da quel momento in poi ha dedicato tutto se stesso a Gualdo Tadino e alla sua gente. Fino al giorno della scadenza del mandato dopo il quale, subito dopo, è volato via. “Sindaco di Gualdo per sempre”, forse questo era il suo destino, questo era il motivo per cui è nato. La sua vita è stata piena ed intensa. Non tutti riescono ad averla così.
Rolando era un uomo speciale, nei suoi pregi e nei suoi difetti. Era tanto di tutto, era magnetico e irresistibile. Vi giuro, non lo dico perché sono il figlio, ma era veramente così. Era il Sindaco che commosse il Presidente della Repubblica chiedendogli, ai tempi del terremoto, solo una bandiera dell’Italia da mettere sul municipio, ma era anche il Sindaco sceso in piazza durante il concerto a Gualdo Tadino dei Skatalites, per sedare una mega rissa mettendosi in mezzo tra gli ultras del Perugia e quelli della Ternana.
IL MIO ROLANDO PERSONALE
Come padre invece è stato piuttosto attento. Ovvio, ha avuto i suoi limiti come tutti i padri del mondo, ma ha cercato di crescerci con delle buone motivazioni e di darci un’educazione all’onestà estrema, oltre al rispetto verso i più deboli. Ma soprattutto c’era una cosa che gli stava particolarmente a cuore e su cui ha insistito davvero tanto: «Non idolatrare mai niente e nessuno» diceva «Non lasciare mai che qualcuno parli per te, usa la tua di voce. Non seguire le masse, sii unico. Non avere eroi, cerca il tuo talento, le tue idee». A volte era anche piuttosto brusco su ‘sta cosa, ma non sopportava vedermi avere degli idoli. Quando ero adolescente mi piaceva appendere ai muri della mia stanza i poster dei miei beniamini, ma poi lui arrivava e me li strappava tutti. Mi diceva: «Tu non hai bisogno di questi bambocci».
Io credo che per capire il “Rolando pensiero” sia molto utile una dedica che mi fece su un libro che mi regalò per il mio quattordicesimo compleanno. Il libro si chiamava I miti del 20° secolo” e lui scrisse sulla prima pagina: “I miti non vanno imitati, perché non esistono. Gli eroi, i divi, servono a chi ti vuole innocuo. La vera ribellione è vivere senza modelli prefabbricati e ricercare la verità. Lottando contro le ingiustizie. Un anonimo onesto vale molto di più di un uomo famoso ma compromesso“.
Ecco, io credo che questa dedica, da sola, sia sufficiente per ricordare e capire chi era Rolando nel suo anniversario. Poi io ci ho aggiunto un sacco di pensieri e ricordi che forse non servivano, ma secondo me la memoria deve vincere. Il tempo perso è tutto ciò che non ricordi.
Mi dispiace se qualcuno non ha trovato in queste mie righe l’uomo delle istituzioni, le sue opere, i suoi successi e i suoi insuccessi. Allo stesso tempo sarei felice se qualcuno leggendole capisca come vanno le cose in un tumultuoso rapporto padre-figlio e magari si ritrovi in qualcosa.
In quanto a Rolando Pinacoli, chissà come prenderebbe quello che ho scritto, chissà se sarebbe felice di tutto ciò. Se magari lui potesse leggere ora gli direi: «Hai visto quanto cose racconto su di te? Ma questa è solo una tregua, vecchio lupo. Un giorno ci rivedremo e allora continueremo a scontrarci come abbiamo sempre fatto, perché ‘sta cosa che tu sei sempre stato più figo di me io non l’ho mai mandata giù veramente. Va beh, daje, se scherza. Non stravizià troppo e in qualunque posto tu ti trovi adesso, mi raccomando Rolà: sempre in trincea. Ciao.»
Emiliano Pinacoli